Che cosa pensiamo

CHE COSA PENSIAMO

Siamo consapevoli che un dibattito sano e costruttivo su lavoro, sviluppo e crescita sia essenziale per garantire un futuro in Italia ai nostri figli.
Sappiamo anche che oggi il dibattito è costruito su pilastri che non reggono: quelli dei racconti da salotto, delle mode narrative (spesso ricalcate malamente da altri paesi con condizioni completamente diverse), quelli della rabbia a dalla paura del futuro.

Sappiamo anche che tante sono le domande aperte e che la velocità di risposta rischia di essere sempre troppo lenta.

Dove si crea il valore?

Condividere è bello, ma i nostri like e tweet hanno un valore economico anche per noi? E come regolare, tassare e sviluppare la data economy?

Al tempo delle fabbriche interconnesse e di modelli di produzione flessibili, sono ancora adeguati i nostri schemi di regolazione del lavoro?

Le piattaforme tecnologiche: all’Europa serve un grande player come Google per controbilanciare la sfida del futuro del lavoro? E se è troppo tardi per crearlo… che si fa? Quale ruolo per la disciplina della concorrenza?

I PILASTRI DA SMONTARE

Se la risposta è difficile non è altrettanto difficile sgomberare il campo dalle false convinzioni. Un buon inizio è cambiare i pilastri del dibattito, smontando quelli che non reggono. Eccone cinque.

01. “Il lavoro sta finendo”

Fioccano, come a ogni rivoluzione tecnologica, le messe funebri per il lavoro. Il metodo è semplice: si stringe lo sguardo su alcune economie avanzate (come la nostra), si limita l’analisi ai soli fattori tecnologici, e si dimenticano i numeri. Ed ecco che l’argomento diventa stringente: nel giro di dieci anni non lavoreremo più; lo stato dovrà supplire in qualche modo.
È un’analisi fallace, per molti motivi. Primo tra tutti i numeri: mentre suoniamo le campane a morto per il lavoro, ciò che davvero è successo nel mondo negli ultimi vent’anni è che un numero inedito di persone, miliardi di persone in Asia e Africa soprattutto sono uscite dalla povertà perché il loro lavoro ha acquisito valore.
Ma i numeri contraddicono l’idea della “fine del lavoro” anche se guardiamo più vicino a noi: in Germania, ad esempio, nel 2017 si è battuto il record storico di occupazione, con un tasso del 3,9 disoccupazione.
Allora non è vero che il lavoro sta finendo. È vero invece che sta cambiando enormemente, e che chi, in Occidente, non ha saputo scegliere il giusto modello di sviluppo vedrà il lavoro dei propri cittadini perdere di valore.

02. “La tecnologia distrugge il lavoro”

È bene non dare per scontato affermazioni totalizzanti e vere solo in parte. È singolare che lo scontro “tecnologia vs lavoro” sia stato teorizzato in California, patria della Silicon Valley, ma nello stesso tempo più grande centro manifatturiero degli Stati Uniti.
È certamente vero che lo sviluppo tecnologico legato all’interconnessione, all’intelligenza artificiale e agli algoritmi spiazza molti dei lavori attuali, eliminando soprattutto lavori intermedi (inclusi molti lavori di concetto) e creando una polarizzazione tra lavori di qualità – quelli caratterizzati da mansioni creative e non replicabili – e lavori a bassissimo valore aggiunto, che saranno spinti sempre più in basso nella catena del valore dalla tecnologia.
È vero che è in corso un grande spostamento di valore dalla produzione di beni e servizi alla loro distribuzione: e non è un caso che i nuovi big player in numerosi settori tradizionali siano piattaforme tecnologiche sprovviste di assets e disinteressate alla produzione (un esempio per tutti: Airbnb non possiede né gestisce nessuna delle camere che mette a disposizione, ecc).
È vero che l’ultima ondata di innovazione tecnologica ha toccato prima le modalità di consumo che quelle di produzione. In una provocazione, si può affermare che con Industria 4.0 le fabbriche stanno cercando di raggiungere un livello di interconnessione paragonabile a quello che i consumatori hanno già raggiunto cinque anni fa con smartphone e social media.
È vero che la tecnologia, quando è stata utilizzata per accrescere la produttività del lavoro, è stata in realtà una creatrice di lavoro all’interno di catene del valore globale: molti dei posti di lavoro e dei settori produttivi persi dall’Italia sono spariti per mancanza di capacità innovativa, mentre chi ha saputo investire in tecnologia (e skills ad essa legate) prospera e conquista i mercati internazionali, anche in Occidente. Ciò è avvenuto anche nella produzione di beni. Ed è grazie alla tecnologia che oggi molti Paesi occidentali possono parlare di riportare a casa la loro manifattura (reshoring), e si pongono la questione di una labour intensive innovation.
Più che di tecnologia, bisogna allora parlare di globalizzazione e del ruolo che ciascun paese ha deciso, volontariamente o per omissione, di disegnare per se stesso all’interno delle dinamiche globali. Chi si è posizionato come mero consumatore si troverà sempre più spiazzato dalla tecnologia. Chi invece, investendo in tecnologia, ha sviluppato la sua capacità di produrre e innovare, prospera nella globalizzazione.

03. “L'epoca senza lavoro è un’epoca futura”

Da secoli un’epoca senza lavoro è descritta come una prospettiva (più o meno desiderabile) collocata nel futuro. Se consideriamo però, come già detto, che il lavoro non sta finendo ma sta perdendo valore, possiamo concludere che il passato è pieno di epoche in cui il lavoro non era al centro della creazione di valore: ci sono state le epoche in cui il valore si è creato dalle rendite fondiarie, dall’appartenenza a classi e corporazioni, dalla guerra, dalle spezie, dallo sfruttamento di fatica ritenuta “non umana”, come quella degli schiavi. Sono state, in genere, epoche di alte diseguaglianze, di basso reddito medio e di scarsissima mobilità sociale. Sintomi analoghi a quelli che stiamo vedendo oggi, e che vanno combattuti anziché subiti come inevitabili.

04. “Quel che conta è il reddito, non il lavoro”

L’argomento principale per il superamento del lavoro sta nell’idea, diffusa sia tra i movimenti populisti che tra numerosi pensatori tecnologici – che il lavoro possa essere sostituito senza colpo ferire dal reddito, da una qualsiasi altra forma di reddito, eventualmente provvista dallo stato.
Un’affermazione del genere ignora del tutto il ruolo basilare che il lavoro ha rivestito nell’era moderna per la costruzione delle identità individuali e sociali, per la creazione di meccanismi virtuosi di mobilità sociale ed emancipazione, per garantire la partecipazione alla vita pubblica di masse crescenti di cittadini.
Il lavoro non va preservato e valorizzato come fonte di reddito, ma come gesto sintetico di creazione di identità, come forma piena di cittadinanza attiva. È questo il senso moderno della nostra Costituzione “fondata sul lavoro”.

05. “Il lavoro lo creano le leggi”

Il dibatto sul lavoro così come è impostato oggi in Italia sembra basato sul presupposto che il numero e la qualità dei posti di lavoro dipendano esclusivamente dalla legislazione del lavoro. Da questo assunto fallace derivano sia le scelte di policy dei governi, più concentrate sulla regolamentazione che sulla promozione del lavoro, sia la qualità del dibattito pubblico, ridotto a una sfida in punta di dati ISTAT sull’effetto del jobs act settimana per settimana.
Bisogna Superare l’equivoco per cui sono i giuslavoristi a creare lavoro.
Sono gli imprenditori, gli investimenti, la cultura e il sapere a creare buoni o cattivi, tanti o pochi posti di lavoro in un Paese. Il dibattito sul lavoro deve diventare un dibattito sulla crescita, sugli investimenti, sulla trasformazione del nostro sistema economico.

I NUOVI PILASTRI DA COSTRUIRE

Sgombrato il campo dalle convinzioni errato possiamo iniziare a costruire nuovi pilastri del dibattito e a lanciare al Paese nuove sfide decisive. Eccone cinque.

01. WELFARE - “Le politiche che riempiono i vuoti”

Abbiamo l’urgenza di riempire nuovi vuoti, a partire da quelli della vita lavorativa. Quella lineare del Novecento (nascita – formazione –lavoro – pensione – morte) non rappresenta più il modo in cui vivremo il mondo del lavoro. La discontinuità e il cambiamento sono già un elemento caratterizzante delle carriere e delle vite degli individui. Per evitare che diventino elementi negativi servono “politiche mastice”, gap filling policies, che riempiano i vuoti delle vite professionali di ciascuno in maniera versatile e personalizzabile. Formazione, dialogo continuo con le imprese, una nuova generazione di politiche attive del lavoro e un’assicurazione individuale che accompagni il cittadino in tutti i passaggi della sua vita lavorativa.

02. COMPETENZE – “Ricucire il mismatch”

Viviamo un disallineamento inedito tra competenze richieste dal lavoro e competenze fornite dal sistema educativo. Per farlo dobbiamo spalancare le porte delle scuole e dell’università al mondo, e nel contempo trasformare i luoghi del lavoro in luoghi di formazione: sostegno alla formazione tecnica, investimento nella formazione professionalizzante (istituti secondari superiori), alfabetizzazione digitale, alternanza scuola lavoro, governance condivisa delle istituzioni educative, longlife learning, formazione a distanza. E poi ci serve uno sguardo lungo, capace di individuare i mismatch futuri: il mondo della ricerca deve fornire indicazioni su come cambierà la domanda futura di skills sulla base delle traiettorie di sviluppo scientifiche e tecnologiche.

03. FISCO - “Fondata sul lavoro, non sulla tassazione del lavoro”

È facile parlare di fine del lavoro quando il carico fiscale che grava sul lavoro è più alto di quello che grava su ogni altra forma di reddito, incluse quelle improduttive e parassitarie. E subito dopo aver suonato il de profundis per il lavoro si inneggia a nuova spesa con il reddito di base. La leva fiscale va invece usata con coraggio per restituire valore e competitività al lavoro come fattore della produzione e per incoraggiare investimenti in formazione che accompagnino la transizione tecnologica (e senza i quali Industria 4.0 è uno strumento monco).

04. IMPRESE – “La via italiana alle startup: le imprese nuove”

Il lavoro lo creano le imprese, le imprese che creano più occupazione sono le più nuove, e le nuove imprese sono quelle più capaci di innovare, e dunque di creare lavoro ad alto valore aggiunto. Non possiamo non investire in imprese nuove.
Ma quali saranno le nuove imprese in Italia e in Europa? In quali settori hanno l’opportunità di essere game changer a livello globale?
Si parla molto di Industria 4.0, spesso con un po’ troppe semplificazioni: automatizzare una fabbrica significa industria 3.1. Industria 4.0 vuol dire molto di più: nuove imprese e nuovi modelli di business, e dunque nuovi lavoratori e un nuovo ruolo della persona nella produzione.

05. CONCORRENZA – “Piattaforme o ministeri?”

Le politiche e le regole del gioco le fanno (e le faranno sempre più) i legislatori europei e nazionali o Amazon e Booking? Il controllo delle filiere distributive e la produzione di valore aggiunto da parte di imprese dominanti non può essere il frutto di strategie di regulation riding. Politiche e regole per la concorrenza e fiscali (a livello europeo) sono forse l'unico modo per creare un futuro equilibrato e competitivo e contemporaneamente finanziare investimenti (scuola e ricerca) e l’abbassamento del costo del lavoro.

06. GIOVANI – “Mobilitare il potenziale inespresso”

Inutile girarci intorno: la questione giovanile nel mondo occidentale post-crisi assume una rilevanza di sistema. O i millennials si prendono il loro posto al centro della produzione di valore e di senso nella nostra società, o siamo destinati al declino. Rappresentare le istanze dei giovani, mobilitarli e renderli protagonisti e non vittime del cambiamento del mondo del lavoro è un obiettivo centrale. E quindi formazione, informazione, orientamento, mobilità, valorizzazione del merito, strumenti per l’emancipazione giovanile e per la valorizzazione dei giovani nelle imprese. E revisione di fisco e welfare, perché la redistribuzione sia anche generazionale.

Leggi : CHE COSA FAREMO”